Quella sulla pensione dovrebbe essere una riforma fondamentale nella prossima Legge di Bilancio. Si parla di una pensione a 64 anni per tutti, superando le discriminazioni presenti nei sistemi pensionistici.
Nel prossimo autunno autunno il Governo Meloni proverà a chiudere le discussioni in materia previdenziale. Ci sono però tantissimi problemi da superare, a partire dall’età minima per andare in pensione, comune per i vari sistemi pensionistici (misto e contributivo puro).
La sensazione è che, nonostante la riforma, resteranno attive le modalità tradizionali di pensionamento, e cioè la pensione di vecchiaia e quella anticipata, senza che l’esecutivo riesca a sciogliere per tempo tutte le riserve su Opzione Donna, Ape Sociale e Quota 103. E c’è un enorme problema di discriminazione oggettiva fra i lavoratori che si affacciano alla pensione. Da una parte ci sono quelli che rientrano nel sistema misto (ovvero coloro che hanno cominciato a lavorare prima del 1996) e, dall’altra, quelli che avranno a che fare con il sistema contributivo.
Proprio per questi ultimi sono previsti alcuni vantaggi in termini di età pensionabile, determinati ovviamente da precise condizioni da rispettare. Per contro, ci sono anche degli evidenti svantaggi, dato che il pensionamento non ha un’età di uscita sicura (e quasi mai precedente ai 67 anni). Ciononostante le parti sociali stanno insistentemente chiedendo che i vantaggi del sistema contributivo siano estesi tramite la riforma delle pensioni anche i misti. E questo proprio per evitare una discriminazione di fondo in materia previdenziale. Il più evidente punto di discrepanza fra i due sistemi è la pensione a 64 anni.
In pratica il lavoratore che ha iniziato la carriera professionale prima del primo gennaio 1996, considerando il sistema contributivo puro, potrebbe andare in pensione a 64 anni di età, con 20 anni di contributi. Tale possibilità è sfruttabile solo con una pensione pari o superiore a 2,8 volte l’assegno sociale in vigore. Un valore che per l’anno 2023 è pari a 503 euro al mese. Ciò significa che per poter andare in pensione ci vogliono i 64 anni, i 20 anni di contribuzione minima e un assegno pari o superiore a 1.405 euro circa al mese.
La cifra è abbastanza alta. Per lo meno appare elevata per tantissimi lavoratori con una ventina di anni di contributi. Un altro problema evidente è che, per chi non ha contributi prima del 1996, la pensione di vecchiaia non è sempre ammessa a 67 anni: il rischio comune è di dover attendere il compimento dei 71 anni di età.
Per il sistema contributivo puro chi vuole andare in pensione a 67 anni di età con la pensione di vecchiaia ordinaria deve aver maturato 20 anni di contributi e raggiungere una pensione pari o superiore a una volta e mezza l’assegno sociale: ci vuole dunque una pensione di circa 754 euro al mese almeno.
Ecco perché si lavora per offrire a tutti la facoltà di anticipare a 64 anni la pensione. Sarà però complicato riuscire a trovare le risorse per poter agevolare questa riforma, dato che bisognerebbe renderla più appetibile e meno rigida soprattutto per chi non ha versato contributi di un certo valore.
Sarebbe fondamentale superare il vincolo delle 2,8 volte l’assegno sociale per poter offrire oggettivi benefici ai misti e ai contributivi puri. Sembra infatti eccessivo pretendere una pensione oltre 1.400 euro al mese se si offre una pensione anticipata già con solo 20 anni di versamenti. Quest’anno andare in pensione prima dei 64 anni (a 63 anni) è stato possibile grazie all’Ape sociale. Ma la soluzione non può essere estesa a tutti.